Vita breve di un genio, presentazione del libro

“Pergolesi è un genio superiore, il suo lavoro di composizioneè un esempio sublime, lo Stabat è un capolavoro.” – Richard Wagner (1813-1883)Con questa citazione e l’ascolto dello Stabat Mater, dedicato a tutti gli amanti della musica annunciamo la presentazione del romanzo storico scritto da un fisico musicologo Andrea Frova e da una docente di lettere e saggista Mariapiera Marenzana, ambedue già autori di numerose opere.

Di seguito le recensioni

Recensioni

“Per Giovan Battista Pergolesi ho sempre provato un’inclinazione e una tenerezza particolare”. Così si espresse Igor Stravinskij a proposito del grande compositore. Ma la stessa “inclinazione e una tenerezza particolare” deve essere stata propria degli autori, Andrea Frova e Mariapiera Marenzana, di Vita breve di un genio. Pergolesi e il suo tempo (Theta Edizioni, 2021) nell’accostarsi al musicista e nel delinearne la biografia. Lo si avverte nel Prologo, dove i ricordi personali ricreano l’arte dello Stabat Mater (“un capolavoro” per Richard Wagner) e in molti passaggi del loro romanzo storico, che rivela ammirazione piena e simpatia affettuosa per il loro personaggio. 

Pergolesi ebbe una vita breve, dal 1710 al 1736, ricca di opere di altissimo valore, ma poche vicende biografiche certe si offrivano agli interpreti. Per questo essi si sono mossi sulla linea, già felicemente sperimentata con il romanzo storico Autunno veneziano. Fantasia su temi di Vivaldi (Edizioni Efesto 2019), che coniuga storia e invenzione, costruendo con spirito contemporaneo e naturalezza elegante di stile, uno spaccato assai vivo del tempo in cui Pergolesi visse e operò, sfruttando con sapiente rigore gli elementi biografici noti e integrandoli con un’accurata ricostruzione di ambienti storici e di situazioni verisimili. 

Fanciullo di famiglia umile, claudicante forse per una poliomielite e di salute cagionevole, Pergolesi trova nel violino il compagno fedele e l’oggetto in cui esprimere la sua natura artistica e la sua creatività. Memorie autobiografiche, caratterizzate da una lingua mimetica dell’italiano dell’epoca, rievocano la prima infanzia del bambino timido, ma circondato da affetti; il centro storico di Iesi e i suoi nobili edifici; la scoperta dello strumento e la sua prima educazione; l’avventuroso viaggio in carrozza a Napoli per poter studiare nel Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo; il volto della città antica brulicante di gente. Alle memorie si alternano più ampi passi narrativi, che mostrano come dalla vocazione infantile, attraverso l’esercizio continuo e lo studio della tecnica violinistica (molto interessante la visita alla liuteria Gennaro Gagliano nel capitolo in cui si ammira la competenza di Frova), il compositore sia giunto ai vertici della musica del suo tempo. 

Accompagniamo così il giovane, che manifesta ben presto un’acuta sensibilità sentimentale ed espressiva, evidente nella relazione, forzatamente interrotta dalla famiglia aristocratica, con  la marchesina Maria Spinelli, lungo vicende che lo videro accolto in salotti e ambienti di corte, a Napoli e a Roma e di nuovo a Napoli, dove ebbe modo di fare incontri importanti con Giuseppe Tartini, del quale si spiega assai bene il “tritono” usato nel noto Trillo del diavolo; con il filosofo Giovambattista Vico e il compositore Francesco Durante; con Bernardo Tanucci, ministro del giovane re Carlo e con altri illustri e noti personaggi. Ma soprattutto assistiamo, attraverso le pagine narrativamente vive e polifoniche, al suo affermarsi nel panorama musicale con le opere ora buffe ora serie: la Salustia, primo modesto successo a 21 anni; Adriano in Siria, dramma in tre atti; Lo Frate ‘nnamorato e il Prigioniero superbo contenente il brioso intermezzo La serva padrona, poi rappresentata separatamente con favore; L’Olimpiade dall’esito incertoe la commedia in musica Il Flaminio. Infine, rifugiatosi nel monastero di Pozzuoli, dove a soli 26 anni terminò la sua esistenza, ecco lo Stabat Mater, massima espressione dell’umana passione “patita nella carne per lo strazio irreparabile della separazione”.

È questa visione laica e razionale, umanissima, del vivere a prevalere in tutto il romanzo di Frova e Marenzana ed è in questa visione che ci riconosciamo, quando ascoltiamo la musica di grazia, bellezza e profonda verità del giovane artista e pensiamo alla sua musica, che  intrattiene e conforta, commuove ed eleva, come a “un ponte” tra gli esseri. 

(prof. Gabriella Palli Baroni – scrittrice e critica)

Una splendida esecuzione dello Stabat Mater di Giovanni Battista Pergolesi spinge Mariapiera Marenzana e Andrea Frova a conoscere meglio questo straordinario compositore del settecento napoletano, morto giovanissimo mentre completava quello che sarebbe stato il suo capolavoro.  Un capolavoro che emoziona i musicisti come i semplici ascoltatori perché – pur commissionato da una istituzione religiosa – riesce a parlare a tutti di dolore e di morte attraverso una musica di sublime bellezza.  Ecco nascere quindi l’idea del libro, una biografia piena di affetto per questo  giovane povero e di poca salute che supera d’un balzo le convenzioni musicali del suo tempo ed entra nell’olimpo dei grandi musicisti.

Di Giovanni Battista, scoprono gli autori, si conosce ben poco: a partire dagli scarsi dati disponibili, si sviluppa una narrazione appassionata e coinvolgente.  Assai efficace è l’accostamento di registri diversi nel racconto. Dalla prima persona degli autori, a cui si è accennato, si passa alla terza persona, tipica delle biografie, e ad esse si affianca una scrittura in prima persona nella quale un Giovanni Battista affettuosamente immaginato – fin nel delizioso tentativo di parlare la lingua di Napoli – racconta le vicende salienti della sua breve vita, iniziata il 3 gennaio 1710:  le prime note sul violino, a Jesi, prima ancora di imparare a scrivere; lo studio intenso al Conservatorio dei poveri in una Napoli brulicante di folla e di intrighi; l’incontro con grandi musicisti, come Francesco Durante, Nicola Porpora, Giuseppe Tartini; l’emozione dei successi (Lo frate ‘nnammurato, La -qweServa padrona, il Salve Regina, per citarne solo alcuni), fino alla prematura conclusione della sua esistenza, il 16 marzo 1736, in un Convento di Pozzuoli: “Ho conosciuto il mondo, incontrato successi e lodi ma anche sconfitte e delusioni. Ora son afflitto e stanco, poco tempo mi resta, lo sento, e in cambio di ciò che ho avuto intendo lasciare in dono, finita, quella che io ritengo esser l’opra mia più alta, lo Stabat Mater, cui ora ritorno”. 

Lo sguardo di Pergolesi sulla musica assume a tratti un carattere scientifico. E questo non deve sorprendere: il compositore ottiene i suoi straordinari risultati anche perché dedica una grande attenzione ai suoni che i musicisti producono seguendo la partitura. Fin dal secolo precedente – ad opera soprattutto di studiosi come Mersenne, Descartes, Huyghens – la scienza ha permesso di comprendere il segreto dei suoni: la loro struttura interna, il loro timbro, la relazione tra i suoni e le caratteristiche degli strumenti che li producono. Tutto questo appassiona Giovanni Battista, che visita la famosa liuteria Galgano e si interessa della forma degli strumenti, delle caratteristiche delle tavole armoniche, della tensione delle corde. E quando Giuseppe Tartini visita il Conservatorio, il giovane violinista vuol comprendere a fondo il mistero del “terzo suono” che Tartini, appunto, è il primo a studiare in maniera approfondita.

L’incontro con la nobiltà e con il potere – civile e religioso – porta  Giovanni Battista a dar prova delle sue qualità morali, oltre che del suo genio musicale. Non diviene servo di nessuno, ed è solo la sua musica a parlare per lui e a farlo apprezzare da tutti: fino al punto che il popolo, nei vicoli di Napoli, canta le sue arie. “Una sera, era il crepuscolo, e io m’affrettava a tornar al Collegio per non trovarmi colto dal buio, nel Vico dei Sospiri udii fluire da una di quelle disadorne finestre la bella voce d’un uomo che con passione cantava l’aria di un’opera mia, e ne fui sorpreso e commosso”.

Il drammatico passaggio di potere dagli Asburgo ai Borbone spinge Pergolesi a trasferirsi a Roma, invitato dalla Principessa Anna Colonna, consorte del Duca di Maddaloni. Qui egli non cede alle lusinghe della nobildonna, che per puro capriccio ha posto gli occhi sul giovane zoppicante ormai famoso. Più tardi, Giovanni Battista si innamora – ricambiato – di una sua giovane allieva, la Marchesina Maria Spinelli. Ma il padre della fanciulla umilia il giovane, sottolineando la sua bassa condizione. 

Tra umiliazioni personali e soddisfazioni artistiche si consuma il breve ma intenso “romanzo di formazione” di Giovanni Battista, nemico di ogni servitù e di ogni superstizione. Ma compassionevole nei confronti di quell’umile popolo soggetto al potere nobiliare e religioso che Pietro Giannone, perseguitato ed esule, sognava di far uscire dalla sua condizione servile.

(prof. Gianni Zanarini – fisico, saggista e docente universitario)

“Vita breve di un genio. Pergolesi e il suo tempo “è un romanzo storico scritto da un fisico musicologo e da una docente di lettere e saggista, ambedue già autori di numerose opere. La precisazione circa il genere del libro, che appare sul frontespizio, ci avverte che non stiamo per leggere una biografia totalmente ricavata da documenti, ma un romanzo. Nel corso della lettura questa precisazione apparirà fondamentale.

All’inizio dell’ampio prologo un link a piè pagina ci permette di collegarci con internet per ascoltare lo Stabat Mater (la più famosa opera di Pergolesi) scegliendo tra due ottime esecuzioni. Così, accompagnati dalle dolenti note dell’opera, sempre nel prologo, seguiamo gli autori che assistono, nel severo salone del Palazzo della Cancelleria di Roma, all’esecuzione del brano pergolesiano ad opera del famoso complesso barocco dei Musici.

Aprire il romanzo con il contatto immediato con quello che è considerato il capolavoro di Pergolesi mi è parsa una scelta fondamentale nell’economia dell’opera perché permette agli autori di precisare sin dall’inizio gli aspetti delle composizioni del musicista che essi ritengono salienti e che saranno la falsariga nello svolgimento del romanzo mentre essi esaminano con attenzione le poche notizie biografiche del compositore, lo collocano nel suo tempo e nella Napoli del primo settecento accostandolo a personaggi dell’epoca con dialoghi e scambi di idee non documentati ma possibili e introducendo deliziosi passi di autobiografia apocrifa ma godibilissima e comunque più che accettabile, anzi al suo posto, in un romanzo.

Ma quali sono questi aspetti caratteristici dell’opera pergolesiana che gli autori sottolineano sin dall’inizio?  Prima di tutto la novità di “spontaneità e naturalezza rispetto alle forme convenzionali e alle mode dell’epoca”, poi nello Stabat mater l’espressione “di uno strazio ineffabile e di un’esperienza di dolore più umana che religiosa, senza cioè accenno ad una consolazione futura“ e infine  “uno spirito indomito e vitale e la volontà di assicurare a sé, nel futuro, una sopravvivenza attraverso la propria voce”.

E veniamo alla struttura dell’opera che sin dalla prima lettura appare solida ed equilibrata. Lo svolgimento è cronologico, i fatti sono all’inizio narrati da un narratore eterodiegetico che, come avviene nei romanzi storici, sembra dare sicurezza al lettore e con una scelta di argomenti sempre fedele all’interrogativo di fondo “…chi era quel musico divino…?”. La composizione, scandita in quattordici capitoli, dà al lettore un senso di necessità e compattezza. Ma ecco, già dal secondo capitolo, annunciata da una diminuzione dei caratteri grafici, l’improvvisa introduzione di un brano autobiografico, non  autentico ma redatto in una melodiosa prosa settecentesca che ha il compito evidente di avvicinare il personaggio al lettore rendendolo più umano, forse più fragile come narratore omodiegetico della sua storia.

Nel primo capitolo siamo informati della nascita a Iesi nel 1710, nella modesta famiglia Draghi proveniente da Pergola, di un piccolo essere “…paonazzo e raggrinzito”, evidentemente molto sofferente, con “un respiro appena percettibile”, urgentemente bisognoso, secondo la levatrice, di un battesimo precoce, perché in evidente pericolo di vita. Il documento del battesimo viene riportato nel testo e veniamo informati del fatto che gli autori, con un viaggio a Iesi, hanno voluto di persona scrupolosamente controllare uno dei pochi documenti della breve vita del compositore, vita che, essi affermano, si conosce solo nelle linee generali con “informazioni contraddittorie o incomplete o inattendibili”. Si tratterà dunque per loro di ricercare e trovare  “quegli elementi che hanno reso Giovanni Battista Pergolesi unico e irripetibile. Tutte le fonti da loro consultate sono comunque scrupolosamente elencate alla fine del testo.

Nonostante le modeste condizioni della famiglia, Giovanni Battista, fanciullo “schivo e ritroso”, reduce da una invalidante poliomielite e sin da piccolo minato dalla tubercolosi, viene introdotto allo studio del violino e dell’organo e ad una rudimentale conoscenza della composizione da musicisti di Iesi che riconoscono in lui un fanciullo prodigio. È poi aiutato da un nobile di Iesi a trasferirsi, ancora giovanissimo, a Napoli come convittore a pagamento nel conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo (uno dei quattro conservatori di Napoli!) per conseguire il diploma di violino. Dopo un lunghissimo viaggio in carrozza attraverso mezza Italia, narrato in prima persona dallo stesso Pergolesi, troviamo il musicista a Napoli.  È un momento di grandi trasformazioni per questa città, affollata, disordinata, sonora, meta di personaggi illustri come Tartini, Vico, Tanucci, Santesteban, Durante, Porpora, molti dei quali il giovane avrà modo di incontrare sia perché, divenuto abile violinista viene invitato ad eseguire concerti in nobili dimore, sia perché, pur giovanissimo, è diventato un noto compositore e le sue opere (serie o comiche) come La serva padrona, l’Adriano in Siria, la Salustia, il Flaminio, l’Olimpiade, vengono rappresentate nei maggiori teatri.  A Napoli Pergolesi ha modo di visitare la bottega dei liutai Gagliano, visita quanto mai interessante per il lettore per la quantità di notizie sullo strumento: dalla scelta del legno alla filettatura, al riccio, alla tavola armonica, alla tensione delle corde. A Napoli lo troviamo in      conversazioni con personaggi noti alcuni dei quali portatori di idee nuove ed aperte che certamente hanno avuto sul giovane una qualche influenza. Nel 1734 l’arrivo a Napoli di Carlo di Borbone, che sostituisce gli Asburgo d’Austria nel governo della città, porterà una ventata di nuovo in tutti i campi; ma il musicista,  protetto da nobili fedeli agli Asburgo, preferirà trasferirsi a Roma. Il breve soggiorno romano di Pergolesi è caratterizzato dal tentativo di seduzione di Anna Carafa di Maddaloni verso il musicista che però appare sempre consapevole della sua posizione sociale e fermo nel rifiutare quelle scelte che potrebbero intralciare il suo cammino di perfezionamento. E proprio alla fine della sua vita l’infelice amore per la sua allieva, marchesina Spinelli (che si concluse con il licenziamento e minacce di morte), l’aggravarsi  della tisi, il lavoro indefesso per portare a termine,nonostante la debilitante malattia, quell’opera che forse sentiva sarebbe stata  il suo capolavoro e in qualche modo il suo testamento spirituale, lo Stabat Mater.

Nell’analizzare l’importanza delle coordinate spazio/tempo nell’economia dell’opera dei nostri autori mi è tornata in mente la breve e gustosa lezione di narratologia che Marguerite Yourcenar (Il colpo di grazia – 1938 – Feltrinelli 1962) fa nella prefazione all’edizione italiana del 1962 del suo racconto Il colpo di grazia. Oltre  a spiegare i vantaggi e i limiti del narratore omodiegetico la scrittrice parla del valore del luogo e del tempo nel romanzo storico che non sono solo lo sfondo, sia pure importante, della storia e comunque non hanno valore intrinseco, ma agiscono sui personaggi influenzando i loro comportamenti. Nel nostro romanzo storico notevole sembra l’influenza del tempo e del luogo sulla produzione di un compositore che, secondo gli autori tanto spesso  “esce dalle regole convenzionali del tempo anticipando musica a venire”. Napoli sta vivendo uno dei momenti più importanti della sua storia: il giovane re Carlo di Borbone sembra aver scelto una politica di riforme, protegge e incoraggia l’arte (basta pensare alla costruzione delle regge di Caserta, Capodimonte e Portici, agli scavi di Ercolano e Pompei), Napoli, come ho detto, pullula di personaggi portatori di idee nuove, molti dei quali sicuramente incontrati da Pergolesi che, dopo l’arrivo del Borbone,  ha respirato un’atmosfera meno opprimente e bigotta di quella del periodo asburgico.

Lo stile degli autori appare, sin dalle prime righe, ricco, chiaro, scorrevole, con periodi ampi e strutturalmente complessi, sempre eleganti e sintetici. La scelta lessicale è accurata, precisa, dotta. Anche i passi dedicati alla liuteria Gagliano, nella loro specificità, possono essere seguiti da profani con interesse e curiosità perché chiarissimi e alleggeriti da dialoghi brillanti. La parte più  impegnativa per un incompetente è la conferenza/concerto tenuta da Giuseppe Tartini agli studenti del conservatorio, ma anche questa è sviluppata con una forma chiarissima che, tra l’altro, ci fa pensare quanto adatto ed utile sarebbe questo libro nelle quarte, quinte classi di liceo musicale e, ancor meglio, nel dipartimento di musica antica di un conservatorio. Molto musicali sono le pagine autobiografiche per quei troncamenti e quelle costruzioni particolari che vogliono rendere una prosa settecentesca. È questa gradevole prosa poetica che avvicina al lettore il personaggio e le sue riflessioni: la sua tristezza di bambino timido e solitario, forse emarginato dai compagni per la sua menomazione, la meraviglia per i paesaggi scoperti nel viaggio verso Napoli e per quell’indimenticabile incontro con l’abruzzese autore dell’alfieriano suggerimento “Basta volere, fortemente volere” che per il lettore costituisce il leitmotiv di tutto il libro. Sempre dalla voce del musicista il racconto degli anni di studio indefesso a Napoli, la scoperta della città, gli incontri importanti per la formazione della sua personalità. Dal punto di vista stilistico le pagine autobiografiche sono tra le più belle del libro: oltre la grande musicalità vi si avverte un sentore di ricchezza culturale che traspare nelle brevi ma frequenti citazioni di opere letterarie di epoche varie come echi di incontri  amati, assimilati, elaborati.

Nella conclusione del libro torna un termine che già ci aveva colpito. Infatti nel finale la testimonianza di Giuseppe Sigismondo parla di raggio di “divinità” che caratterizza lo Stabat mater mentre nel primo capitolo gli autori si chiedono chi sia quel musico “divino”, termini entrambi certamente usati nel senso iperbolico di “altissimo”, “perfetto” poiché nello svolgimento dell’opera la religiosità del Pergolesi viene ridimensionata, non negata, ma resa più aperta, più consona ai tempi.

Via via che si procede nella lettura del romanzo si ha come l’impressione che l’idea grezza dell’opera, più che la conoscenza del “divino fanciullo” sia la ricerca del senso di “quell’arte dell’uomo, la musica, che parla il solo linguaggio che possa essere inteso da tutti gli uomini, qualsiasi loco e tempo essi abitino”. Pergolesi sembra intuire una risposta, ma noi lettori che pure al termine del libro ci sentiamo vicini e quasi partecipi alla ricerca, sappiamo che non possiamo avere una risposta a questo interrogativo, soprattutto da un romanzo la cui vera risposta, come anche Kundera (L’arte del romanzo, Adelphi 2001) ci avverte, è la coscienza della complessità dell’animo umano.

(Giovanna Cesaretti Colitto, insegnate)